Il 29 gennaio 1996 un incendio riduce in cenere il Teatro La Fenice a Venezia.
Quella che presentiamo è una sentenza anomala.
Non riguarda un infortunio elettrico, una disputa elettrica, un pericolo elettrico, ma due persone che di mestiere facevano gli installatori elettrici, fino a che uno sconsiderato gesto ha posto termine alla loro attività lavorativa e anche alla loro libertà. Stiamo parlando dei due elettricisti che sono stati accusati e ora definitivamente condannati per l'incendio del Teatro La Fenice di Venezia, avvenuto nel 1996.
I due imputati, Enrico Carella e Massimiliano Marchetti, sono stati condannati in primo grado per avere deliberatamente appiccato il fuoco al teatro, rispettivamente a sette e sei anni di reclusione. La condanna è stata confermata in appello nel 2002 e in Cassazione nel 2003. Insieme a loro è stato condannato, ma solo al pagamento di una multa, anche il direttore del cantiere Sisto Ruggiero, che non avrebbe preso tutte le cautele dovute al caso.
Perché ci occupiamo di un caso che non riguarda la tecnica elettrica ? Per due motivi. Il primo è che la verità processuale ha dimostrato che l’incendio della Fenice è stato di carattere doloso e non è stato provocato dal “solito” cortocircuito che si tira in ballo sempre in queste occasioni. Se avete la possibilità di rileggere i giornali del 30 gennaio 1996, o di rivedere i telegiornali di quei giorni la prima ipotesi sparata in bocca all’opinione pubblica era quella dell’incendio nato per un guasto all’impianto elettrico. Questa ipotesi, e non è solo il caso della Fenice, è stata ripetuta una tale quantità di volte, che è rimasta nella mente delle persone come una verità assoluta. Non vogliamo sostenere che gli impianti elettrici non provochino incendi, magari fosse così, ma solamente che una maggiore attenzione nel dare le notizie provocherebbe qualche distorsione della verità in meno.
Il secondo motivo che ci ha spinto a presentarvi questa sentenza è quello legato alla motivazione del gesto dei due installatori che avrebbero appiccato il fuoco per evitare di pagare una penale, essendo in ritardo con i lavori di restauro del teatro. Una motivazione che può sembrare sproporzionata rispetto alle conseguenze del gesto, che eppure è stato pensato ed eseguito. Ecco uno stralcio della sentenza:
E’ indubbio che i lavori di restauro al teatro “La Fenice” erano in ritardo rispetto alle tabelle di marcia previste: di fatto quasi tutte le ditte impegnate si trovavano in tale situazione, come peraltro già rilevato e reso evidente dal grafico depositato attestante il ritardo nei lavori anche della Viet di cui si dirà più oltre. Giova qui sottolineare come, oltre tale dato elaborato dall'ingegner Osio, anche Cavallari Paolo, amico di Carella Enrico, di Mian Alfredo, di Dordit Eros, teste del tutto indifferente ed estraneo alla vicenda, abbia dichiarato di aver appreso da Dordit, cui aveva chiesto spiegazioni in ordine al fatto che egli terminava sempre tardi di lavorare, che appunto erano in ritardo rispetto ai tempi previsti. Del resto lo stesso Calvani, perito elettrotecnico all’epoca dipendente della ditta Argenti, recatosi in teatro proprio il 29/1/96 per effettuare una contabilità a misura, pur sostenendo che i lavori erano in una fase molto avanzata, confermava che mai avrebbero potuto essere conclusi entro gennaio, a causa del ritardo accumulatosi per problemi inerenti le opere edili, tant’è che erano state chieste due proroghe. Lo stesso Calvani precisava che entro la scadenza del 21/2/96, relativa alla prima dilazione non essendo stata ancora autorizzata la seconda proroga, avrebbero terminato i lavori relativi alla distribuzione generale, all’installazione dei quadri elettrici, al passaggio dei cavi, ma non anche quelli relativi al gruppo elettrogeno che presentava problemi di consegna e di posizionamento. Anche Como Giulio, dipendente della ditta Argenti, dichiarava che era sta concessa una proroga sino al 28/2/96, in relazione ai ritardi determinati da problemi insorti nelle attività di restauro e palesati durante una riunione convocata dalla direzione lavori e tenutasi il 7/11/95, ma era costretto a riconoscere che tale dilazione non concerneva tutti i lavori bensì soltanto quelli inerenti la posa in opera dei quadri mentre per i restanti il termine rimaneva invariato. Il citato teste, peraltro, ammetteva che, nel corso del mese di gennaio Carella Renato gli aveva ripetutamente fatto presente la necessità di incrementare forza-lavoro e, nel ribadire che i ritardi erano attribuibili al complesso della situazione cantieristica nel senso che se, ad esempio, non era stato rifatto il pavimento la Viet non poteva posizionarvi sopra le attrezzature per fare gli impianti elettrici nel soffitto o se non venivano riconsegnate le appliques dai restauratori le medesime non potevano essere montate; ribadiva che a suo giudizio la Viet avrebbe potuto ultimare i lavori in termine. Tuttavia Como confermava l’avvenuta presentazione di una perizia di variante, relativa ad esempio alla sostituzione dei cavidotti con canalette inox o all’aumento di sezione dei cavi ma era costretto ad ammettere che non era intervenuta alcuna autorizzazione nè che era stato presentato, al di là del fatto che se ne fosse discusso con la direzione lavori che infatti con missiva datata 8/1/96 l’aveva richiesto, alcun riaggiornamento del programma dei lavori. In ordine ai ritardi comunque anche il teste Visentin, oltre a confermare la pressante richiesta di Renato Carella di fornire il proprio contributo lavorativo per terminare i lavori, asseriva che per il loro completamento sarebbero occorsa una ulteriore ventina di giorni. Ma la testimonianza di Como appare rilevante anche sotto il profilo della effettiva situazione venutasi a creare nel teatro nel dicembre-gennaio 96: dichiarava infatti il teste che ogni ditta aveva un cantiere proprio ed un suo capo-cantiere, Carella Renato per l’Argenti ed evidenziava come l’attività delle varie imprese, necessariamente si intersecasse con quella altrui sicchè i ritardi o le difficoltà dell’una si ripercuotevano inevitabilmente sulle altre. In particolare Como, a titolo esemplificativo, ricordava che erano insorti problemi di rinforzo delle travi di legno o di rifacimento dell’intero pavimento del piano terra e dichiarava di non rammentare riunioni specifiche sul problema sicurezza del quale però asseriva essersi discusso a tu per tu con la direzione lavori alla quale, peraltro, sicuramente nella riunione del 6/11/95 i rappresentanti delle varie ditte esposero le problematiche da ciascuno affrontate tant’è che in una successiva riunione del 19/12/95 l’Argenti prospettò la necessità di una proroga proprio in relazione ai ritardi determinati dai problemi inerenti le travi. Como invece negava di essere a conoscenza dell’assunzione di altro personale da parte della Viet, malgrado confermasse la richiesta di incremento della forza lavoro ripetutamente rivoltagli da Carella Renato, ed asseriva di non ricordare l’episodio occorso il 12/1/96 e relativo al cannello lasciato acceso da qualche operaio della Viet, mentre dichiarava che su ordine della direzione lavori alcuni rilevatori antifumo vennero smontati, precisando che tutto il piano terra venne smantellato.
Il quadro che risulta da questa lettura può essere quello consueto di qualsiasi lavoro, cioè dei difficili incastri tra lavori edili, idraulici ed elettrici. Vogliamo allora portare alla vostra riflessione il perché una situazione apparentemente abbastanza normale è scivolata in dramma. Una parte della risposta la potete avere leggendo l’intera sentenza che vi proponiamo (quella di primo grado poi confermata nei successivi gradi di giudizio). L’altra parte della risposta sta nel lato oscuro delle nostre menti.
La sentenza è molto lunga, ma vale la pena darvi almeno un’occhiata. Si legge come un romanzo giallo ed è corredata di una sequenza cronologico-fumettistica dello sviluppo dell’incendio veramente molto interessante.