
La conduzione elettrica in un mezzo metallico è di tipo elettronico, mentre in un elettrolita, come il terreno o l’acqua di mare4, è di tipo ionico.
Ciò significa che quando la corrente abbandona
il binario, per disperdersi nel terreno,
si realizza un trasferimento di elettroni che
crea gli ioni di conduzione. Avviene cioè un
fenomeno chimico di ossidazione la cui manifestazione,
visibile nel tempo, è la corrosione
elettrolitica.
Per inciso, la corrosione normalmente avviene
solo quando la corrente esce dal metallo e non
quando vi entra.
La corrosione catodica, anche
detta corrosione negativa, è prodotta, invece,
da correnti entranti in un metallo e può avvenire
solo in particolari condizioni dell’elettrolita.
Quando la corrente ritorna nel binario vi è il
processo opposto, detto di riduzione, che
“consuma” gli elettroni prodotti, ma non permette,
a causa di vincoli termodinamici, l’accumulo
del materiale ferroso asportato.
Le correnti vaganti danneggiano, quindi, sia
il binario sia gli eventuali elementi metallici
interrati nelle vicinanze, per esempio oleodotti
o gasdotti, producendo, in casi estremi, e
quando non sono protetti catodicamente, la
loro rottura.
Anche gli impianti di terra delle
stazioni, necessari per mettere a terra masse
e masse estranee secondo la norma Cei 64-8 nei sistemi TT, possono subire danni da corrosione.
In figura 2 la corrente continua dispersa rientra
nel binario e corrode la tubazione ed i ferri
di fondazione di una struttura, dopo aver
corroso i binari stessi nei punti di uscita.
Tali
danni si possono estendere anche agli elementi
intenzionalmente connessi al circuito di
ritorno.
La norma Cei EN 50122-1 prescrive,
infatti, al paragrafo 4.2.4.1, che si debbano
collegare al binario le parti metalliche (recinzioni,
griglie di protezioni su cavalcavia, pensiline,
pali della luce...) che possano essere
energizzate dal collasso della linea di contatto
o anche dal pantografo sviato, se in tensione.
A tal proposito la norma individua un volume
di rispetto sotteso dalla linea di contatto e dal
pantografo nel quale tutte le parti metalliche
presenti sono da considerarsi a probabile rischio
di energizzazione.
Tali elementi metallici in assenza del collegamento
al binario, assumerebbero una tensione pericolosa in funzione della loro resistenza
verso terra (figura 3) e gli interruttori di protezione
della linea di trazione avrebbero più
difficoltà ad intervenire.
La connessione al binario, imponendo un
partitore di corrente alla corrente di guasto,
previene, o contiene a bassi valori, la sua circolazione
attraverso la resistenza di terra della
massa, riducendo, così, la tensione di contatto
a vuoto.
Tale connessione, però, sebbene funzionale
per la sicurezza, mette, di fatto, a terra il binario,
facilitando la circolazione di stray current.
Un’alternativa alla precedente connessione
franca, permessa dalla norma al paragrafo
5.2.2.2, è il collegamento tramite un diodo
(figura 4).
In assenza di guasti nell’impianto di treno,
il diodo si comporta come un circuito aperto (polarizzazione inversa dovuta al potenziale
negativo delle rotaie).
Ciò garantisce che
il binario non sia intenzionalmente messo a
terra in condizioni ordinarie.
In caso di guasto (crollo della linea di contatto sul palo di illuminazione)
il diodo è polarizzato direttamente e consente il collegamento straordinario dell’impianto
di terra della massa con quello di
binario.
La corrente di guasto può, così, essere
interrotta in tempi modesti nel rispetto dei limiti
di sicurezza.
In passato la presenza di correnti vaganti negli
impianti ferroviari non era sempre percepita
come un problema, ma era, anzi, incoraggiata.
Nel 1969 alcuni studi in Usa incoraggiavano a
non isolare da terra il binario per consentire alla corrente di treno di ritornare alla sorgente
anche attraverso il terreno e qualunque percorso
metallico che ne incrementasse la conduttività.
Giova ricordare che nei sistemi ferroviari elettrici
in corrente alternata (in Germania) la corrosione
è quasi del tutto inesistente.

